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IL TERRITORIO COMUNALE
Il territorio di Pescosolido si estende per 4445 ettari. E’
accidentato ed in forte declivio: dai 2003 m. del monte Cornacchia digrada
rapidamente ai 306 m. di Campopiano.
I campi coltivati, ripianati a mmetune[1],
si trovano nella parte bassa, al di sotto dei 600 metri (Vinisco,
Vallefredda, Dormune, Moglie[2], Morella, Vallegammeri[3],
Aia del Cerro ecc.).
Ma nel passato si trovavano anche tra i 600 ed i 1000 metri (Valpara,
Carovenzo, Pietramara[4],
Pantano, Cese[5], Rota della Spina, Curro,
Fossa della Defensa[6],
Fontana Donato, Casale) ed alcuni anche oltre i 1000 metri d’altitudine
(Prati di S. Lucia, Collacchio, Cerreta, Noce Cantera, Pianelle, Cèse Mencóne): erano ripianati a macère[7] (ancora oggi perfettamente
conservate); ma si trattava di campi e campetti aridi, pietrosi, esposti
al caldo estivo ed al gelo invernale e potevano essere coltivati solo per
brevi periodi dell’anno. Rendendo poco, nel Secondo Dopoguerra furono i
primi ad essere abbandonati e la vegetazione spontanea li ricoprì in
breve tempo. Oggi vi lussureggiano fitti boschi di lecci, carpini, cerri,
roverelle, carrubi, ginestre ed altre essenze tipiche delle zone interne
appenniniche.
Le abitazioni si trovano nella parte bassa del territorio. Il
capoluogo è a 630 metri s. l. m. (il punto più alto, Colle S. Giovanni o
‘nnènze Corte, è a 643 m.).
A quote inferiori si trovano le frazioni: La Salette[8]
(413) e le Case Cascone (577) ai confini con Balsorano; Cesarone (355) ai
confini con Sora; Bagnoli (371), Carletta - Moritto (402), Roscetta (403),
Bastiani (427), Addesia - S. Marco[9]
(473), Forcella[10] (487), Viapiana (450),
Cantenne (400), Colledardo[11]
(383), Campopiano (317), Case Cantenne (di Vallefredda, 395), Chiarenzo e
S. Maria (560).
La Valpara[12]
(594) e le Case Ciccione (627) oggi sono contrade spopolate: gli abitanti
tra 1950 e il 1960 emigrarono all'estero (nel Canada soprattutto) o
scesero più in basso (alla Salette, all'Aia del Cerro, a Colle S.
Pietro). Visitando questi luoghi abbandonati, si respira ancora
l'atmosfera della vita semplice e stentata d'un tempo. Le abitazioni,
situate ai lati di stradine strette e tortuose, in genere si compongono di
due piccoli locali: la cucina al piano terra e la camera da letto al piano
rialzato, a cui si accede mediante una scala esterna in muratura. Nel
sottoscala, la rólla[13] delle galline. Di
lato, attaccata all'abitazione, la stalla per il ricovero degli animali più
grossi (asino, pecore e capre). Dentro la cucina, annerita dal fumo, un
ampio camino munito di mònache;
a lato due assi in legno per sostenere la
chepèlla dell'acqua; al soffitto grosse travi di quercia per
sostenere il solaio, a cui sono infissi robusti anelli metallici (vi si
infilavano le pertiche per appendere glie
caciare, le salsicce, i
prosciutti, i pomodori e glie piènnere
d'uva). All'ingresso, la porta ad un'anta in legno di quercia, con la
parte superiore che s'apre per far entrare la luce. All'esterno i
sostegni, ormai cadenti, delle pergole. Qua e là, vialetti erbosi, argini
coperti di gigli bianchi, cespugli di roselline rosse, oggetti
arrugginiti, pezzi di legno tarlato...
Al di sopra della linea Valpara-Forcella-Pescosolido-Acque Vive si
trova la Montagna, che è anche “zona
di protezione esterna” del Parco Nazionale d’Abruzzo.[14]
Nella parte bassa della Montagna si trovano (da nord-ovest) la
Scrimata, Carovenzo (1006), Collerotondo (999), Pietramara (750), Le
Macchie-Pantano (832), Pastinello-Curro (760), la Rota di Spine (852), la
Fossa della Defensa (862), il Prato Leggiero (738), il Nocito e la Fontana
Donato (913), il Casale e la Rava[15]
del Corvo (787).
Più in alto, oltre i 1000 m., si trovano (da nord-ovest)
Mazzamorello (o Mutechiène), la
Selvareccia, il Collacchio, Colle Largo, Colle Muzzo con la Capanna
‘glie Bregante (un rudere), le
Coste ‘glie Renìce con la Selva
Ranna e Sant’Agnera (1547), la Nocicchia[16]
(1427), Pennacchio-Castelluccio (1389).
In alto le cime dei monti formano un arco che da sud-est va a
nord-ovest, piega a nord-est e poi ripiega a sud-est. Una parte di
quest’arco, quella che si affaccia su Sora, comprende (da sud-est) Punta
Calcatora (o Fossa Cardecósa[17],
1737), Punta Cardicola (o Casellitte,
1801), la Brecciosa (1890), il Macerone (1879), le Scalelle (1831) e la
Cornacchiella (1893)[18].
Il resto del crinale, più internato, comprende il monte Cornacchia
(2003), le Cacchiete (1992)[19], il Pozzo della Neve[20] (1839), Colle
Uóne[21]
(1944), il Balzo di Ciotto (1932) e il monte Serrone (1929).[22]
All’interno di quest’arco, tra le Scalelle e le Cacchiete, si
trova Campo di Grano (1714), un bel pianoro di 45 ettari, dove si trovano
alcuni pozzi artificiali costruiti nel passato per abbeverare le greggi.
Più a sud-est, tra la Brecciosa e Colle Buono, si trova la Val S. Pietro,
stretta e lunga, nel cui fondo scorre il Lacerno in direzione
est-sud-ovest.
Il territorio montano nel passato veniva sfruttato intensamente da
pastori, carbonari, boscaioli e artigiani[23].
Nell’immediato Secondo Dopoguerra costituì l’unica risorsa per
campare: tutti vi andavano a far legna, anche le donne. Chi non le ricorda
con la terzetèlla in testa? Un
giorno impiegavano per andare a farla e un altro per andare a venderla a
Sora; così potevano comprare il pane: un chilo! Andando tutti a far
legna, i boschi vennero distrutti: “Alla fine” racconta uno che c’è
stato “eravamo fortunati se trovavamo un ramo doppio come un dito”. Ma
poi le cose cambiarono. Tutti si volsero altrove per trovare il necessario
per vivere: molti emigrarono, altri si organizzarono meglio. E la
montagna, abbandonata a se stessa, piano piano tornò a coprirsi di una
fitta vegetazione (ma impiegò più di 20 anni). Oggi faggete superbe,
immense, si stendono nuovamente lungo le ripide pareti della Val S.
Pietro, alle Campetelle, alle Fossette, alle Cacchiete, a Pennacchio, alla
Nocicchia, alla Selva Grande… Sicché ora disponiamo di un ambiente
naturale perfettamente ricostituito. Che è anche fortunato, poiché è
privo di strade rotabili (almeno per ora). Esso è meta preferita di
passeggiatori ed escursionisti.
La parte di territorio più antropizzata, dunque, è quella che si
trova a valle. Diversi forestieri si sono stabiliti nelle zone di
Valpara-Bagnoli, Colledardo e Vallefredda, utilizzando le vecchie
abitazioni o costruendone di nuove.
Molte sono le strade rotabili. Le principali sono tre e partono dal
capoluogo: l’antica strada che, passando per il Collicello, arriva a
Campopiano e si immette sulla Sora-Avezzano (ma presenta diverse curve a
gomito, per cui molti evitano di percorrerla); la strada per Campoli, che
si immette sulla Sora-Pescasseroli; la strada per Forcella che, qui
giunta, si dirama per Viapiana-Cantenne-Colledardo-Campopiano, per
Vallefavano-Valleradice, per Addesia-Bastiani-Valleradice con deviazione,
a Bastiani, per Roscetta-Cesarone-Bivio Lanna e
per Carletta-Bagnoli-Aia del Cerro, da dove prosegue per il Bivio
Lanna (S.S. 82) e per Valpara-Case Cascone-Ridotti-Balsorano. Altre strade
collegano Viapiana al Collicello, Canele a Vinisco-Vallefredda, Chiarenzo
all’Aspro, alla Vallelecina e a Vallefredda…
Ci sono anche strade che portano in montagna: al Prato e alla
Fontana Donato, a Pietramara, al Pantano ed alla Rota di Spina, alla Cona
Sant’Agnera e al Mandrino, alla Macchia del Sacrestano... Queste ultime,
purtroppo, a volte vengono usate con scarsissimo rispetto
per l’ambiente e per le regole del vivere civile (ma si sa: dove
arrivano le quattro ruote, non sempre arriva la buona educazione). I confini
A nord-est confiniamo con Villavallelonga lungo il crinale
Cacchiete - Colle Buono - Balzo di Ciotto - Serrone.
Con gli abitanti di Villavallelonga non abbiamo questioni in atto.
I rapporti sono del tutto normali, anzi occasionali e sporadici, per via
degli alti monti che ci separano. Un solo matrimonio, che io sappia, c'è
stato tra le due comunità. Nel passato a volte il rinomato concerto
bandistico di Pescosolido è andato a suonare nella cittadina abruzzese
attraversando a piedi la montagna. Qualche pescosolidano, in tempo di
carestia, vi è andato ad offrire olio e frutta (specialmente fichi) in
cambio di patate e grano. *
A sud-ovest confiniamo con Sora. I confini attraversano campi e
fossi e perciò sono abbastanza incerti. Iniziano a Vallefredda, sotto
l’ospedale civile, salgono alla collina di Campopiano e scendono a Quariglie[24],
risalgono a Paletta[25]
e proseguono verso La Vecennola,
raggiungono Ulpi, Cesarone e la strada comunale Colle S. Pietro - Case
Prospero.
Con Sora abbiamo rapporti molto intensi: lavoro, politica, sanità,
scuole, tutto ci collega ad essa. Però noi con i Sorani, "buon
giorno" e "buona sera" e ognuno a casa sua. Non per motivi
particolari; ma perché abbiamo sempre fatto così. Una volta (tanto per
dirne una) un sorano disse a un valparotto:
- Bégli'ô, tu che si 'e
Pestesóllere, pecché nne me pórte ‘ne jepitte? (Come se da noi i
lupi fossero più numerosi delle mosche in estate.)
- Pe ce fà ché ? - domandò
il valparotto.
- Uaaah! - rispose quello
- Pe ce fà pazzejà ‘ste ùttare,
ca sennó chiagne.
Ma dico io!
Tra Pescosolidani e Sorani esistono tantissimi casi di amicizia, di
collaborazione, di atti di cortesia e di stima reciproca; ci sono stati
anche diversi matrimoni. Ma questo non cambia nulla. Noi rimaniamo sempre
sulle nostre posizioni. Le quali, come si sa, sono piuttosto elevate (non
per niente abitiamo in alta collina). *
A nord-ovest confiniamo con Balsorano. Ah, Balsorano! Bella
cittadina, non c'è che dire. Si trova nella Valle Roveto (peccato, però,
che a noi il maltempo arrivi sempre da lì: quando vi appare una
nuvoletta, uno non fa neanche in tempo a dire “Addije, s'è 'ppelète glie sbuce!”, che subito vento, lampi,
tuoni ed acqua a zeffunne ci si
rovesciano addosso).
I confini con Balsorano iniziano alle Cacchiete, passano per la
cima di Monte Cornacchia, scendono a sud toccando le quote 1896 (Cornacchiella),
1893 e 1784, proseguono per il fosso che scende tra le Case Ciccione e le
Case Cerrone ed a valle raggiungono la strada comunale Colle S. Pietro -
Case Prospero.
Con Balsorano non abbiamo questioni in atto. C'è solo il problema
delle bestie al pascolo in montagna, che spesso sconfinano e vengono a
consumare erba ed acqua nel nostro territorio (a Carovenzo, alle Cerreta,
a Campo di Grano). Però anche le nostre sconfinano nel territorio di
Balsorano. Sicché ora protestano i Balsoranesi, ora protestiamo noi e così
passiamo il tempo senza annoiarci troppo. *
Ad sud-est, infine, confiniamo con Campoli Appennino. E qui il
discorso si fa più lungo.
Oggi tra Campolesi e Pescosolidani esistono rapporti ottimi.
Diversi matrimoni avvengono tra i giovani delle due comunità. Ed i nostri
ragazzi, pescosolidani veraci, spesso vanno “a
fare piazza” a Campoli, poiché lì, dicono, l'ambiente è più
accogliente, gli amici sono più numerosi e le ragazze più cortesi. Sarà!
Sarà per il livello culturale più elevato, sarà per il benessere
raggiunto, sarà per i moderni mezzi di comunicazione che abbattono
barriere, ampliano orizzonti, affratellano i popoli ecc. ecc., fatto sta
che oggi i rapporti tra Campolesi e Pescosolidani sono cambiati
radicalmente: la guerra è finita, la pace è arrivata. Ed i confini è
come se non esistessero più. Sul Lacerno è un continuo via-vai: chi va
di là, chi viene di qua, chi rivà di là, chi riviene di qua. E tutto
con la più grande naturalezza di questo mondo. Del resto per favorire
questo via-vai tra le due sponde, i nostri amministratori hanno costruito
anche una bella strada, ampia, scorrevole e panoramica, che in quattro e
quattr'otto ci permette di andare e tornare a tutte le ore e per tutte le
necessità.
Ma nel passato non fu così. Aspre battaglie si accesero tra le due
comunità. I motivi per litigare non mancavano. La Madonna della Misericordia che si venera in Pescosolido
Si rqacconta che in origine la sacra immagine si trovava a Campoli;
ma ancor prima si trovava nella Grotta dei Monaci.[26]
Ma prò, sse glie
fuósse sparte, cómm’è che la Madonna se trevava a Campre? I ècche
qua che la Madonna chiagnéva chiagneva, ca se ne veléva reì aglie paese
sia. I dinfatte ‘na mmattina
se retrevà a Peschiesuóllere. Cómme c'èra arrivèta? Trafugata
nottetempo? Venduta di nascosto? Barattata con qualche altra cosa? Nessuno
lo seppe mai.[27]
Arrivata l’immagine, qualcuno disse che la Madonna se n’era
venuta a Pescosolido da sé, volando.
- E per quale motivo? - domandò qualcuno.
- Eh, quanta ne vuo’ sapé, mó tu! - rispose quello seccato -
Se véde ch'a Peschiesuóllere se trova miéglie.
Sì. Questa della Madonna che se n’era volata a Pescosolido perché
ci si trovava meglio, piacque molto ai Pescosolidani, i quali, convinti
che sulla volontà dei santi c’è poco da dubitare ed ancor meno da
discutere, si rallegrarono non poco con se stessi, ritenendosi più che
degni del privilegio ricevuto.
Ma i Campolesi la pensavano diversamente e perciò si precipitarono
qui in paese per riprendersi il quadro:
- Abbiamo saputo che la nostra Madonna si trova qua da voi...
- Che? – rispose un pescosolidano fingendo di non capire.
- Abbiamo saputo che la nostra Madonna si trova qua da voi: siamo
venuti a riprendercela! – spiegarono quelli.
- Ah, scìne? – ribattè
quello, che sembrava contare più degli altri, battendo ripetutamente la
punta di un piede sul selciato. - I perché ve tenasséma rrènne la Madonna?
- Ma perché è la nostra! - risposero
quelli riscaldandosi.
- Bèh, allora nu ve decéme
ca la Madonna sta bène a do’ sta. I mó iatevénne ‘ngrazia de Di’,
ca nn'avéme tiémpe da pèrde!
- A ui’, a ui’! I chésta pure ènca bèlla, mó! La Madonna è
la nostra e ce la dovete restituire!
- Aaah, ma allora vu veléte
la guerra?! I guerra sia, allora! - risposero i Pescosolidani perdendo
la pazienza (allora erano piuttosto irascibili) e, afferrati bastoni,
roncole, forconi e quant'altro capitasse tra le mani, costrinsero i
Campolesi ad andar via.
E
fu così che la Madonna della Misericordia,
che sia laudata…Ogg'i sèmpre!… rimase definitivamente a
Pescosolido. Era l’anno 1814.
Per i Pescosolidani il racconto finisce qui. Ma per i Campolesi ha
un seguito. Questo.
I Pescosolidani non dormivano sonni tranquilli, poiché temevano un
ritorno dei Campolesi. Allora decisero di distruggerli: posizionarono un
cannone e fecero fuoco. Ma le palle, anziché su Campoli, caddero su
Pescosolido (poiché quelli avevano invertito la bocca da fuoco) ed allora
esclamarono:
- Accidenti, che roba! Se l’arma ha fatto tanti danni a
Pescosolido (che non è sotto tiro), chi sa ch’accesaglia è fatt’a Campre! – e tornarono a dormir
tranquilli.
Nel 1866 il papa Pio IX, su richiesta del parroco don Giuseppe
Piazzoli, autorizzò la celebrazione di una messa votiva alla Madonna
della Misericordia, da tenersi nella prima domenica di maggio. Nel 1991 la
concessione fu confermata dal vescovo di Sora Lorenzo Chiarinelli.[28]
Il quadro, di pregevole fattura, è attribuito a Giuseppe Cesari[29],
com’è scritto su una vecchia cartolina. Fino ad un centinaio d’anni
addietro la Madonna ed il Bambino erano privi di diadema (come si rileva
nella vecchia foto appresso riprodotta) e la cornice, lignea ed
artisticamente scolpita, terminava in alto con due angeli sostenenti una
corona. Poi le nostre nonne vollero fare un dono alla Madonna ed offrirono
un po’ d’oro: chi una catenina, chi una spilla, chi un anello, chi un
paio d’orecchini… e gli oggettini, fusi davanti alla scaliata
(della chiesa), si mutarono in due splendidi diademi a rilievo: uno più
grande per la Madonna ed uno più piccolo per il Bambino. E così il
dipinto si arricchì di due nuovi elementi (e la cornice venne sostituita
con quella attuale). Questo riferisce il nostro amico e compaesano
Francesco Marchione che, quando era ragazzo, fu informato sulla questione
da un’anziana donna di Santa Maria, Loreta Cancelli-Neri (1883-1974).
Francesco Marchione, noto artista del pennello, parla volentieri
dei valori decorativi presenti nel dipinto. Dice che una musica sottile di
colori, sapientemente fusi tra loro, trasfigurano l’esteriorità delle
forme, penetrano di luce cristallina i volti della Madonna e del Bambino e
quasi si fermano a definirne le labbra e gli occhi specialmente.
Fantastica poi la trasparenza del velo che scende sul collo della Madonna.
Il
quadro della Madonna della Misericordia
com’era in origine. La questione dei confini con Campoli
Non è difficile stabilire i confini. Tu prendi un crinale, un
fosso, un fiume, una strada…, li riporti sulla carta con un segno e
l’operazione è fatta. Se poi c’è di mezzo un torrente largo e
profondo come il Lacerno, non devi fare proprio nulla. Il confine sta già
fatto e tu devi solo prenderne atto: chi sta di qua, sta di qua; chi sta
di là, sta di là. E la pace sia con tutti!
In teoria, questo. In pratica le cose stanno ben diversamente.
Almeno per noi Pescosolidani. Poiché i Campolesi pare non possano fare a
meno di oltrepassare il fosso e venire dalle nostre parti a far legna, a
pascolare greggi, ad attingere acqua, a cercare tartufi, a passeggiare
ecc. ecc. “Lo facciamo per diritto di uso civico!” dicono. Che
rispondere? Nulla. Però comprendiamo benissimo il motivo per cui i nostri
nonni si arrabbiavano tanto.
Il Lacerno è un torrente lunghissimo, di una bellezza selvaggia,
in alcuni tratti assolutamente impraticabile. Inizia sul fianco orientale
di Monte Cornacchia e, dirigendosi ad est, spacca in due la parte alta del
territorio pescosolidano, lasciandosi a sinistra le Cacchiete, Colle
Buono, il Balzo di Ciotto ed il Serrone, a destra le Campetelle, la
Brecciosa e Punta Cardicola.
Arrivato a Verginia[30],
piega a sud-ovest e comincia a far da confine tra Campoli e Pescosolido,
raggiunge la Selva Ficcacianca, la Rava del Corvo, l'Acque Vive,
Cesano e il Cavone; quindi piega ad ovest, attraversa Vallefredda e
Campopiano, entra nel territorio di Sora e sfocia nel fiume Liri. Al
termine del suo percorso il torrente ha descritto un arco di una ventina
di km., scendendo dai 1700 m. di Campo di Grano[31]
ai 300 m. di Vallefredda-Pontrinio.
La parte più spettacolare del torrente è quella intermedia, che
va dalla Casina alla Rava del Corvo. In questo tratto il torrente assume
un aspetto selvaggio, incassandosi tra pareti di roccia a strapiombo. Un
fiume d'acqua sgorga dalle numerose sorgenti e precipita a valle
avvolgendo massi e tronchi d'albero, supera salti e cascate spumeggianti[32],
ribolle in pozze ampie e profonde e, nei brevi tratti in cui le pareti si
slargano, richiama assetati columbidi, rapaci, insetti e, non di rado,
caprioli, orsi ed irsuti cinghiali provenienti dal vicino Parco Nazionale
d'Abruzzo.
Negli anni '50 tutta l'acqua venne captata[33]
ed il fosso rimase a secco. Ma qualche anno dopo nel fosso l'acqua tornò
a scorrere come prima, senza che per questo diminuisse quella incanalata
nelle condotte.
Dalle Iàvete alla Rava
del Corvo ai due lati del torrente s'alzano due ripide pareti coperte da
un fitto bosco di aceri, ornelli, tassi, carpini, lecci, roverelle e
soprattutto faggi, che formano un immenso tappeto verde che si stende a
perdita d’occhio a monte, a valle e fin sulle cime glabre dei monti,
dove i gracchi contendono lo spazio ad aquile e poiane e l'accorta cotorna
pedina velocissima rifugiandosi nel bosco.
Il Lacerno, scendendo a valle, tocca le zone seguenti: le
Iàvete (o Le Alti o Lealdi, come si legge in alcune cartine
topografiche), la Casina[34],
la Fontanella Paniccia[35],
il Vallone dei Tassi[36],
la Fossa, la Frónne Pezzelènta, Virginia-Forno[37],
la Rótte 'glie Muónace[38],
Fra' Bettuse[39],
glie Pratiglie, la Selva Ficcacianca, le
Làreje 'll'Acqua[40],
la Rava del Corvo[41],
l'Acque Vive, glie Stirpa d'Aiune,
gl'Irce, Cesano, il Cavone, Vallefredda e Pontrinio.
Impossibile risalire tutto il suo corso. Vi sono delle strettoie
buie e profonde, dove solo l'acqua gelida e scrosciante riesce ad
incunearsi.
Lungo le sponde del Lacerno, sia a monte che a valle della rotabile
per Campoli, si trovano i resti di un antico acquedotto, da alcuni detto “di
Nerone”[42].
Il cuniculo, a sezione rettangolare,
è alto 80-90 cm. e largo 40-43 cm., è rivestito da 2 cm. circa di
stucco durissimo e superiormente è coperto da grosse pietre contrapposte,
messe “a cappuccina”. In qualche punto ci si può calare dentro
attraverso fori semiostruiti dal pietrame e dalla sterpaglia. La parte
esterna della condotta è rivestita da uno spesso strato di malta mista a
ciottoli e scaglie di terracotta.
A monte i resti si trovano sulla sponda sinistra, lungo il margine
della zona Campo (Campoli). Si tratta di segmenti di condotta affioranti
qua e là tra la fitta vegetazione. Il tratto meglio conservato si trova
all’imbocco, a destra, del sentiero che dal Campo scende al letto del
torrente (quello, per intenderci, che passa dietro ai resti di un antico
mulino ad acqua).
A valle i resti si trovano all’Irce, là dove l’attuale
condotta idrica (ponte in cemento armato) attraversa il torrente e
prosegue verso Pescosolido. Qui i resti sono sulla destra del torrente.
Evidentemente i costruttori, che fino a quel punto avevano realizzato la
condotta lungo la sponda sinistra, trovandosi davanti l’alto scoglio,
ritennero opportuno spostare l’opera sulla sponda destra mediante la
costruzione di un ponte, che probabilmente era a tre arcate e del quale
ancora oggi si notano i resti nel letto del torrente (150 m. a monte
dell’attuale summenzionata condotta idrica Campoli-Pescosolido): si
tratta di massi squadrati delle dimensioni di m. 1,43 x 1,70 x 1,03, che
costituivano la base di un pilone. Due di questi massi sono ancora
sovrapposti, gli altri sono stati rovesciati dalla violenza delle piene[43].
Arrivata sulla sponda destra, la condotta riceveva un supplemento
d’acqua da una seconda condotta, più piccola, che proveniva
dall’Acque Vive (sempre sul lato destro del torrente). Questa seconda
condotta aveva la base scavata nella roccia viva, con un alveo largo 20-22
cm., come si rileva chiaramente lungo lo scoglio che lì si trova. La sua
sorgente si trovava là dove inizia la strada che dalla rotabile per
Campoli porta al Casale e doveva essere piuttosto abbondante poiché
comprendeva sia l’acqua che attualmente fuoriesce nella cunetta sinistra
della rotabile per Campoli (e che in tanti vanno ad attingere
giornalmente) sia l’acqua che fuoriesce nella sottostante bella fontana
dell’Acque Vive. Nel punto in cui confluivano le due condotte si trova
una camera (di decantazione?), ancora ben conservata, lunga oltre 7 metri
e alta m. 2,50 con una parte superiore più larga (80 cm. per un’altezza
di m. 1,85) ed una parte inferiore più stretta (60 cm. per una profondità
di 80 cm.). In fondo a questa camera, a 70 cm. dal soffitto, si riapre il
solito cuniculo con la solita copertura a cappuccina: è largo 50 cm. e
alto 130 cm., ma poco oltre si rimpicciolisce riassumendo le normali
dimensioni di 40-43 cm. x 80-90 cm., come si rileva osservando i resti che
affiorano poco più avanti, lungo lo stradello che prosegue per il Cavone.
I resti dell’acquedotto si trovano solo nelle due zone suddette
(Campo ed Irce); non pare che si trovino altrove. Ma va detto che le rocce
ed i terreni su cui era stata costruita l’opera, sono piuttosto friabili
e perciò soggetti a frane ed erosioni continue.
Una descrizione precisa e dettagliata dell’acquedotto romano è
stata fatta dal Beranger[44],
il quale ne colloca la realizzazione alla fine del I secolo a. C.
L’acquedotto, “data la sua
monumentale imponenza, doveva servire la città romana di Sora il cui ager
si estendeva fino a Balsorano, comprendendo gli odierni abitati di
Pescosolido, Campoli Appennino, Broccostella, Posta Fibreno e Vicalvi.”[45]
Lungo il Lacerno (come in tutto il territorio del circondario, da
Alvito alla Piana dei Palentini) si trovano qua e là i resti di antiche
tombe, scavate nella terra e coperte da tegoloni di terracotta. In una di
queste tombe sono stati rinvenuti resti umani cristallizzati, coppette di
terracotta[46]
ed altro.
Nel tratto compreso tra il Casale ed il Cavone sono state rinvenute
statuette di bronzo o terracotta[47],
monetine ed altro.
Resti di tre antichi mulini ad acqua si trovano, adagiati nel letto
del torrente, alla Rava del Corvo, all'Acque
Vive e al Cavone. Uno di essi, quello alla Rava del Corvo, ha funzionato
fino agli anni Venti del secolo scorso. Ne era proprietario un
pescosolidano. L’impianto, però, funzionava in modo discontinuo, poiché
non sempre era disponibile l’acqua necessaria per muovere gli ingranaggi
(le acque sorgive della Val S. Pietro, specialmente nella stagione estiva,
si perdevano poco più a monte tra la ghiaia). Sicché chi portava a
macinare una soma di grano o di mais, era costretto ad aspettare che
arrivasse la pioggia ovvero la piena nel torrente, per avere la farina
indietro. L’attesa poteva durare diversi giorni o anche settimane.
Il Lacerno ha sempre suscitato una certa suggestione. Ne rimase
impressionato anche Giulio Prudentio d'Alvito, che, visitandolo nel
lontano 1574, scrisse che “è un
terrore vedere questo luoco: terrore, horrore et tremore. Molti vi vanno
et restano stupefatti”.[48]
Oggi sono tanti quelli che vanno a visitarlo, nonostante i numerosi
pericoli sempre in agguato: vipere, precipizi, massi che rotolano
dall'alto, piene improvvise, valanghe. Il fatto è che quest’angoletto
di natura selvaggia ed incontaminata ormai è conosciuto da tutti, anche
dai forestieri. E’ riportato anche in quelle pubblicazioni in cui si
parla di passeggiate ed escursioni. In una di esse si legge che nel "canyon
Lacerno” si può fare un “itinerario
bello, non lungo ed estremamente suggestivo, con bel panorama
sull'imponente mole di M. Serrone"[49]
(evidentemente si parla di un piccolo tratto del torrente, quello più
facile da percorrere). Da che deriva il toponimo Lacerno? Probabilmente dal latino “acer” (acero), la bella pianta che, non troppo numerosa, cresce nella zona alta attraversata dal torrente. In origine, infatti, il torrente veniva chiamato Acernus (come si rileva in due documenti: uno di Gisulfo II del periodo 742-751 e uno di Ottone II del 981); ma con il passare del tempo, divenne Lacerno (come accadde ad Acedonia, che divenne poi Lacedonia).[50] A Pescosolido, però, il termine dialettale laciérne si usa per indicare un qualsiasi torrente, purché sia grosso ed impraticabile. E difatti con questo termine noi, oltre a quello che si trova ai confini con Campoli, indichiamo altri due torrenti: quello di Bagnoli (anch’esso ampio, accidentato, con alti scogli ed orridi al Pozzo dell’Obbligo) e quello della Viapiana (citato anche nel catasto onciario[51] del 1748). Se non fosse per le citazioni, documentate, del Beranger, più che all’acero il termine farebbe pensare ad un “lacus acer” (torrente impraticabile), dice qualcuno.
Ma torniano alla questione dei confini. Le liti e le discussioni
tra Campolesi e Pescosolidani, dunque, nel passato erano frequenti. E agli
inizi del 1500 dovettero raggiungere una tale intensità, che non se ne
poté più né dall'una né dall'altra parte, per cui si dovette ricorrere
al giudice. Il signor Polidoro de Beneamatis da Gubbio, commissario
generale per le cause con banco di giustizia in Sora, esaminata l'istanza fatta dai campolesi
Giacomo Cirelli, Giordano Nardone, Antonio Ciuffetta e Angelo Basciarelli,
interpellò i pescosolidani Nicola di Cicco di Cola, Nicola di Domenico
Macchiuso, Giovanni Antonio di Crocco e Sebastiano di Lucico, consultò i
documenti esistenti in merito (compromessi, contratti, relazioni, catasti
e perfino le cronache di Vicalvi e S. Urbano[52]),
andò personalmente ad ispezionare le zone contestate e quindi emanò la
sentenza,[53] affermando in sostanza
che i confini tra le due comunità dalla cima del monte Serrone scendono a
Virginia-Forno (vadum Cellarum)
e proseguono per il torrente Lacerno fino ai confini con Sora (Vallefredda
- S. Marciano); però ai Campolesi che possiedono case e terreni nella
“parte bassa del territorio” di Pescosolido, è consentito cesarvi,
pascolarvi animali, attingervi acqua ecc. né più e né meno di quanto
sia consentito ai Pescosolidani.[54] Nonostante la sentenza,
però, le "turbationes et
molestationes confinium inter dictas universitates et homines" continuarono,
anzi aumentarono, in quanto ognuno interpretava la sentenza modo suo, come
gli faceva più comodo. Dopo
la proclamazione del Regno d’Italia (1861) ci furono dei tentativi per
risolvere pacificamente la questione. Il sottoprefetto di Sora, Mastricola,
si adoperò parecchio. Ma i Campolesi non vollero sentire ragioni: la
costa del Serrone (o ”Costa larga
dell’Autone”, come la chiamano loro) apparteneva a loro, dicevano,
poiché da sempre vi avevano portato a pascolare le bestie senza che i
Pescosolidani avessero avuto alcunché da ridire. I Pescosolidani
ribattevano che i Campolesi, se avevano fatto uso di quei pascoli, lo
avevano fatto di nascosto, cioè abusivamente, e perciò non potevano
rivendicare alcun diritto su quella zona. I tentativi di conciliazione
fallirono ed i Pescosolidani si rivolsero al Commissario Demaniale della
Provincia ed ai tribunali ordinari “onde
tutelare la integrità della confinazione” del loro territorio.[55]
I Campolesi allora tentarono un colpo di mano, probabilmente per mettere
le autorità di fronte al fatto compiuto. Saputo che sulla costa del
Serrone si trovava acquartierato un gregge pescosolidano, vi spedirono il
loro guardaboschi Giuseppe Gabriele. Questi nella tarda serata del 23
luglio 1868 si presentò in compagnia di ben “sei
individui della Guardia Nazionale” e di altri due campolesi,
Pasquale Ciuffetta di Nicola e Luigiantonio Mastroianni del fu Domenico.
Il “pecoraio” che stava a
guardia del gregge, scambiando i visitatori per briganti[56],
se la dette a gambe e scomparve nell’oscurità. Il guardaboschi allora
cacciò il gregge dalla mandra e, aiutato dai suoi due compaesani, lo
condusse a Campoli, dove arrivò “verso
un ora di notte”. Chissà quanti belati, tra i vicoli silenziosi!
Poiché si trattava di “numero
dugentoquaranta di animali pecorini”, che furono consegnati
al sindaco Scipione Clari, al fine di “agire
come per legge contro i contraventori”.[57]
I proprietari, i pescosolidani Pietro Macciocchi e Salvatore Corsetti,
l’indomani mattina si precipitarono a Campoli per riprendersi il gregge,
protestando vivacemente poiché, a parer loro (ed anche degli
amministratori pescosolidani), il gregge era stato sequestrato
arbitrariamente in quanto si trovava a pascolare in territorio di
Pescosolido. Ma fu loro risposto che, se volevano riavere il gregge,
dovevano pagare una multa per pascolo abusivo in territorio campolese. I
due, pur di riavere il gregge, pagarono; ma versarono nelle casse del
comune solo i diritti di fida. Sicché per quel gregge, quell’anno, la
fida fu pagata due volte: al comune di Pescosolido e al comune di Campoli.
La cosa naturalmente finì davanti al giudice (unitamente alla questione
dei confini, che era la causa di tutto). Così si ricominciò con le
carte, le citazioni, le testimonianze, le perizie, le prove e le
controprove. Il comune di Campoli nell’ottobre del 1868 promosse anche
l’azione penale contro Pietro Macciocchi e Salvatore Corsetti per
pascolo abusivo in territorio campolese. Il comune di Pescosolido rispose
nel settembre dell’anno successivo ribadendo quanto aveva già deciso
con deliberazione del 25 luglio 1865 e cioè “adirsi
il Commissario Demaniale, giusta la Legge del 1 Gennaio 1861 e correlative
istruzioni dei Tribunali ordinari, onde definitivamente rifrenare le
pretensioni del Comune di Campoli e che debba permanersi in tale
risoluzione”.[58]
Non si sa come finì la cosa. Ma è da credere che non si sia mai
arrivati ad una risoluzione definitiva, se è vero, come è vero, che
ancora oggi, nel terzo millennio dell’Era Cristiana, andiamo ancora
perdendo tempo con la questione dei confini tra le due comunità.
Oggi, in particolare, esistono due zone “contestate”,
cioè rivendicate in proprietà sia da Campoli che da Pescosolido: una si
trova all’Acque Vive e si estende per 15-20 ettari; un’altra si trova
sulla Costa del Serrone (di cui ho detto prima) e si estende per circa 40
ettari. Però non ne facciamo un dramma, per un motivo molto semplice: nel
passato, quando tutti praticavano l’agricoltura e la pastorizia, ogni
spazio, anche minimo, risultava prezioso, irrinunciabile, indispensabile
per sopravvivere, per coltivare qualcosa, per sfamare qualche capo di
bestiame, per procurarsi un po’ di legna; perciò veniva occupato,
sfruttato e difeso a denti stretti, anche quando non esisteva alcun
diritto per farlo. Oggi quasi più nessuno pratica l’agricoltura o la
pastorizia, gli spazi non servono più, nessuno più li cerca (e di fatto
rimangono inutilizzati). Sicché la Montagna rimane abbandonata a se
stessa, non litighiamo più per possederla. Ora essa ci serve solo come
scenario: bella, rigogliosa, verdeggiante in estate, ammantata di neve in
inverno. Ottima per rallegrare la vista, ottima per farvi le escursioni,
ottima per andarvi a caccia, ottima per farvi tutto quello che vogliamo
noi (ed anche gli altri, a volte).
Anche una altro documento parla, ma sommariamente, dei confini tra
tra Campoli e Pescosolido: il “Processo
verbale della ripartizione del territorio dell’Università di
Pescosolido” stilato ai fini della contribuzione fondiaria nel 1807,
quando era re di Napoli Giuseppe Bonaparte (fratello di Napoleone). Nel
documento, che divide il territorio di Pescosolido in tre sezioni (centro
abitato, territorio coltivato, territorio montano), tra l'altro si legge: "La
seconda sezione indicata dalla lettera B e sotto il nome di territori
aratorii, inculti, arborati, olivetati e querceti è quella parte del
territorio di questo comune che confina a Levante con la terra di Campoli
nel luogo detto Lacerno... La terza sezione indicata colla lett. C è
quella parte di territorio montuoso e boscoso della medesima Unità. A
Levante confina col comune di Campoli nel luogo detto S. Pietro del
Lacerno.”[59]
Il servizio di linea per Puzze Crevane ( sollo sfondo glie
Casellitte ).
Antiche fontane e sorgenti
Le fontane nel territorio di Pescosolido sono tante. Alcune sono
antiche, altre sono state costruite (o ristrutturate) in tempi più o meno
recenti. Si sta parlando, ovviamente, delle fontane esistenti là dove
l’acqua sgorga spontaneamente. Esse si trovano tutte al di fuori del
centro abitato. Queste le più antiche.
- Il Lavandaio (o
Lavandaro) si trova a S-E del paese, in zona Portella. E’ una bella fontana
in pietra, con tre vasche: una per abbeverare gli animali e due per lavare
i panni.
- La Canala si trova a
Nord del paese, poco oltre le Pietrèree, e dà il nome alla zona. Anche
questa fontana è in pietra lavorata. E’ formata da due vasche per
lavare i panni, riempite da due cannelle (rabberciate con cemento). Su una
pietra è scolpita una bellissima torre, lo stemma di Pescosolido. Poco
discosto si trova un fontanile, pure in pietra lavorata, che nel passato
serviva per abbeverare le bestie. La fontana si dissecca quando perdura il
caldo estivo.
- La Profica o, con
termine italianizzato, Purifica
nel passato era la più grande e più ricca d’acqua. Tutti vi andavano a
lavare i panni, ad abbeverare gli animali ed a rifornirsi di acqua,
specialmente quando le altre fonti si disseccavano. Venne ristrutturata
nel 1916, quando fu costruito l’acquedotto per Forcella (era sindaco Pio
Luigi Giovannetti). L’acqua fuoriusciva da quattro cannelle: una in
ferro, che riempiva un fontanile in cemento addossato al serbatoio, e tre
in pietra lavorata che riempivano una prima vasca, dalla quale l’acqua
si riversava in una seconda vasca e quindi in una terza a forma di L,
molto grossa. Tutte e tre le vasche erano formate da grosse pietre
squadrate. La prima serviva per abbeverare gli animali, la terza (la più
grossa) per il primo lavaggio dei panni e la seconda per il risciacquo.
Fino ad una trentina d’anni fa alla Purifica era un continuo via-vai di
animali e persone. Qualcuno a volte vi portava le pecore, non per
abbeverarle, ma per gettarle in acqua e lavarne la lana prima della
tosatura. Le donne vi andavano giornalmente per attingere acqua e se ne
risalivano poi alla vi’ ‘lla Rótte
o a Sante Jacheme con la
conca[60]
o la rencèlla[61]
in testa: aiutandosi con la spara[62],
portavano il recipiente in perfetto equilibrio, senza usare le mani, che
tenevano impegnate nel trasportare fiaschi pieni d’acqua o ceste con
panni lavati. Se si trattava di ragazze, per i giovani era quella
l’occasione buona per andare ad aspettarle a S. Anna o alla
Civitella, facendo finta di trovarsi a passare lì per caso. Chi
invece possedeva l’asino, andava a prendere l’acqua con le chepèlle[63]. Tanta era l’acqua
che sgorgava dalle quattro cannelle e tanta se ne perdeva nel fosso
sottostante formando un ricco ruscello che scorreva a valle allegro e
rumoroso, raggiungeva la Melétta[64],
l’Acquadaiuno, la Vigna ‘lla Córte
e le Moglie. In inverno arrivava anche alla Macchia di Marro, a Quariglie
e a Valleradice; ma in estate non oltrepassava le Moglie, poiché tutti lo
utilizzavano per irrigare i campi, spesso dando vita a litigi e
discussioni per accaparrarsi la maggior quantità d’acqua possibile. Ora
alla Purifica scorre pochissima acqua, poiché un nuovo acquedotto l’ha
dirottata quasi interamente alle frazioni (Vallefredda, Viapiana, Cantenne,
Colledardo, Forcella, Carletta, Bagnoli, Cesarone, La Salette e Valpara).
Le cannelle in pietra sono sparite ed anche le pietre squadrate delle
vasche, che sono state coperte di cemento. L’ultima vasca poi, la più
grande, è stata dimezzata (e rivestita anch’essa con il cemento). Le
vasche, ora, si riempiono solo quando l’acqua è in esubero (il che
avviene per pochi periodi all’anno). E quando ciò accade, qualche donna
ci va ancora a lavare i panni; ma va in auto, poiché è finito il tempo
del canestro in testa con la vecata[65].
- Chiarenzo è stata la
fontana più amata dai Pescosolidani. Nel passato, però, quando l’acqua
era limpida e pura. Tutti vi andavano a fare una bevuta o a riempire un
fiasco. Ma l’acqua era solo un pretesto per fare una bella passeggiata,
magari in compagnia di amici con cui fare quattro chiacchiere. Arrivati
alla fontana, ci si sedeva comodamente su una panchina in pietra,
all’ombra di un salice o di una quercia secolare, si osservava il bel
panorama su Sora e si trascorreva qualche ora di serena e completa felicità.
Ora questo non è più possibile: né si può bere l’acqua, che è
inquinata, né si può osservare il panorama, che è stato nascosto da una
siepe artificiale. La fontana fu costruita nel 1040 da un certo Clarentius[66];
venne restaurata (o ricostruita) nel 1627. Oggi è formata da due vasche,
di cui una, più grossa, serve per abbeverare gli animali. L’acqua che
vi sgorga è poca, ma non si dissecca mai.
- La fontana dell’Acque Vive si trova nei pressi del ponte sul Lacerno della rotabile
per Campoli, vicino ai resti di un antico mulino ad acqua. Si compone di due vasche separate, in pietra lavorata, una per
lavare i panni ed una per abbeverare le bestie, ciascuna riempita da due
cannelle. Tre di tali cannelle sono in pietra lavorata (due hanno un
incavo per berci dentro). La fontana venne costruita nel 1827, come si
rileva da un’incisione fatta su una pietra.
L’acqua sgorga freschissima ed abbondante, ma nessuno se ne
serve, oggi, risultando più comodo attingere quella che sgorga poco più
sopra, dentro la cunetta sinistra della strada per Campoli. La fontana
dell’Acque Vive si trova nella c. d. “zona contestata”, cioè
rivendicata in proprietà sia dai campolesi che dai pescosolidani.
- La fontana di Carovenzo si trova sul fianco meridionale del monte omonimo, di
fronte a Pietramara. La fontana, in pietra lavorata, è formata da tre
vasche (una più piccola e due più grosse per abbeverare gli animali).
L’acqua è pochina, ma non si dissecca mai; fuoriesce da una bella
cannella in pietra con un incavo per berci dentro. Sulla cannella è
incisa la data 1852 con le
iniziali dello scalpellino: una C
ed un altro segno indefinibile.
Sono antiche, ma riattate in tempi diversi,
- La Fentana ‘e Ciarallitte,
che si trova nella zona omonima (poco oltre la Vallerivenditto). Ha tre
belle vasche. Si dissecca in estate.
- La Fentana ‘glie Mònache,
che sta poco più a valle (vicino ai resti di un’abitazione) nascosta
tra la sterpaglia. Non vi scorre più acqua. Però a circa 100 metri più
in basso, sulla destra della strada che porta aglie casarine de Récchia, c’è un’altra fontanella in cemento,
coperta dai rovi, dove l’acqua resiste fino alla tarda primavera.
- La Fentana ‘e Sante Piétre-Terrétta,
che si trova poco più a monte della Fontana di Chiarenzo, non si dissecca
quasi mai.
- La Fentana ‘glie Amute,
che si trova al Gondaro (poco a valle della Prèta
‘gli Acéce).
- La Fentana ‘e Benische,
che si trova nella zona omonima.
L’acqua vi scorre in discreta quantità per quasi tutto l’anno.
- La Fentana ‘lle
Rève[67],
che si trova poco più a valle della fontana di Vinisco.
Queste fontane, esclusa quella ‘e
Ciarallitte, hanno una sola vasca per la raccogliere l’acqua, che
nel passato veniva usata sia per lavare i panni che per irrigare i campi.
Nel passato esistevano anche altre fontane, ora scomparse:
- La Fentana Denète (Donato),
che ha dato il nome alla zona, si trovava lungo il sentiero che dalla
Vallefolesca (Prato) porta al Mandrino e a Campo di Grano,
all’imbocco ‘glie Querreture[68].
Di essa rimane un incavo nella roccia, dove si raccoglieva l’acqua che
fuoriusciva da un interstizio. Fino a qualche decennio addietro chi si
trovava a passare di lì, poteva ancora affondare le labbra (ed il naso)
nell’incavo per dissetarsi; ora non più, poiché la sorgente è quasi
sempre asciutta.
- La Fentana Marziéglie
(Marselli o Marsello o Marcello), che si
trovava nella zona omonima, al di sotto della strada che dal
cimitero porta alla cona ‘e
Sant’Agnera.
- La Fentana Ruócche
(Rocco), che si trovava all’Irce, sul lato destro del Lacerno. Nella
zona ancora oggi scorre acqua fino ad estate inoltrata; ma non resta
traccia della fontana.
- La Fentana Antuóne
(Antonio), che si trovava a metà strada tra l’abitato di Forcella e
l’Addesia.
- La Fontana Chiara,
che si trovava poco a monte della Madonna del Vallone, lungo il sentiero
(oggi impraticabile) che anticamente dalla zona di
Colledardo-Cantenne-Viapiana saliva al paese. -
La Fontana Scasso, che si trovava a sud-ovest del Collicello, poco
a valle della “Tromba Cantante”[69]
e precisamente là dove inizia il fosso che divide la Macchia di Marro da
Pertinisco.
Invece chiare tracce esistono di tre antiche fontane, citate sia
nel catasto onciario del 1748 sia negli atti notarili rogati nel 1700 da
Antonio Casimiro Mariani[70]:
- La Fontana della
Vignara, che si trovava alla Peschiamalvieri, nei pressi della
strada che dall’Aspro (campo sportivo) scende al torrente Lacerno.
- La Fontana del Paradiso,
che si trovava poco più a valle, sulla sponda sinistra del Lacerno, là
dove sbocca la strada suddetta.
- La Fontana del
Limito, che si trovava ancora più a valle (verso Sora), anch’essa
sulla sinistra del Lacerno, ai piedi del colle S. Marciano (dietro una
casa presentemente abitata).
Attualmente polle d’acqua, che però si prosciugano nella tarda
estate, si formano in diversi punti del territorio comunale: aglie
Mute Chiène (Mazzamorello), al Fossato, al Casale, alle Moglie, al
Cavone (vicino ai resti di un antico mulino ad acqua)…
Invece alla frana di Canele (l’antico Paludi)
l’acqua ristagna e resiste per tutto l’anno. E all’Irce, dentro il
fosso (poco più a valle dei resti dell’acquedotto romano), si trova una
sorgente, piuttosto abbondante, che non si dissecca mai. L’acqua scorre
per circa 200 m. e poi scompare tra la ghiaia.
La
torre, simbolo di Pescosolido, scolpita su una pietra della fontana Canala.
[1] Limitoni, argini in terra. Generalmente sono sormontati da filari di viti o da alberi da frutta, le cui radici hanno il compito di trattenere la terra per prevenire frane e smottamenti. [2] Da “mullio”, mucchio di pietre, o dal lat. mollis-e, zona molle, acquitrinosa. - in E. Giammarco, Dizionario Abruzzese Molisano, v. VI, Roma 1990. [3] O Vallegambari, forse perché vi è un fosso che nel passato era popolato dai gamberi che risalivano dal fiume Liri. [4] Anche Pietramala (con passaggio di l in r), termine che indica una terra improduttiva. [5] Zona disboscata, resa coltivabile mediante il taglio degli alberi (dal lat. caedo-is). [6] La defenza è “luogo chiuso, in cui sono impediti il pascolo e il taglio degli alberi”. - in E. Giammarco, op. cit. [7] Argini in pietra a secco. Si trovano al di sopra dei 600 m., dove abbondano i massi. [8] La zona è così chiamata in quanto vi viene venerata l’omonima Madonna. [9] La zona è così chiamata poiché verso la fine del 1600 Marcantonio Petrucci vi “eresse e fabbricò” la chiesa di S. Marco dotandola di un beneficio, consistente in un “territorio di tomola cinque, Casa, e Capomandro”, a favore della famiglia di Pietro Ruggieri “col peso di far celebrare messe numero sessanta l’anno”. Successivamente, però, sorse una questione tra l’arciprete di Pescosolido don Pietro Paolo Giovannitti che, non si capiva bene a quale titolo, amministrava il terreno della chiesa e celebrava 26 delle 60 messe dovute, e gli eredi della famiglia Ruggieri, i quali, stando all’atto istitutivo del beneficio, erano i soli a dover amministrare la proprietà della chiesa ed a provvedere alla celebrazione delle 60 messe annue. Intervennero allora il provicario generale don Alesio Tondi “et altre persone savie” che, “considerando il dubio evento della lite, il dissapore, incommodo, e dispendio, che seco portano le medesime, attesa anche la tenuità dell’utile che detti reverendi Arciprete e Canonico ne percepiscono”, indussero le parti ad un accordo: il terreno sarebbe tornato alla famiglia Ruggieri; l’arciprete ed il canonico (viceparroco) avrebbero continuato a celebrare le 26 messe (“due porzioni” l’arciprete ed una il canonico, “e nell’istessa maniera dividersi anco l’elemosina”, che per le messe sarebbe stata corrisposta dalla famiglia Ruggieri); le restanti 34 messe sarebbero state celebrate da don Pietrangelo Ruggieri che, facendo parte della famiglia beneficiata, ne aveva diritto. - dalla “Conventio (compromesso, accordo) tra l’Arciprete e il Canonico Parrocchiale di S. Giovanni con il magnifico Aloisio Ruggieri (fratello di don Pietrangelo)” del 17 Novembre 1749, atto notarile redatto da Casimiro Antonio Mariani e custodito (insieme agli altri) da Stefano Guadagni di Pescosolido. Nel catasto onciario di Pescosolido, redatto nel 1748, il sacerdote don Pietrangelo Ruggieri di anni 25 viene riportato tra gli “Ecclesiastici secolari cittadini” e si annota che “possiede un Ius patronato della Casa Ruggieri merolaicale sotto il titolo di S. Marco e a titolo del medesimo è stato ordinato e sono li seguenti beni videlicet: Territorio in contrada Macchiadura di capacità tomoli 4 e grana 5; Territorio seminatorio con quercie in contrada Costatirozzo di capacità tomolo 1, coppa una e mezza; Territorio chiusato in contrada la Chiaja di tomolo 1, coppa 1 e 3 quartucci; Territorio seminatorio con quercie in contrada Pietramara grande di tomolo 1 e 1 quartuccio; Territorio seminatorio con olive in contrada S. Giacomo di coppa 1 e quartucci 3; Territorio seminatorio con olive in contrada Cesano di tomoli 3” (su quest’ultimo terreno “Errore per non essere di S. Marco” ha annotato una mano ignota). Annualmente il sacerdote è tenuto a far fronte ai seguenti “pesi” (obblighi): “Messe trenta quattro da celebrarsi per l’anima di Marc’Antonio e Eugenia Petrucci in detta Chiesa a ragione di grana dieci l’una” (“Errore” ha ancora aggiunto la mano ignota); E più messe sette per lascito del quondam (fu) Pietro Ruggieri.” – in Archivio Comunale di Pescosolido. [10] Così chiamata perché, anche anticamente, le strade si dipartivano a forcella. [11] Deformazione di Colle Arido (dal lat. aridus, improduttivo). Colledardo è chiamato anche Baldesarra, poiché nel passato vi abitavano famiglie con questo cognome. [12] Anticamente chiamata Vallupara, poiché vi scendevano i lupi dai monti soprastanti. Ma siccome vi scendevano anche le volpi, alcuni la chiamarono Volpara. [13] Rólla o rellétta, dal lat. harula, piccolo porcile o pollaio. [14] L’Ente vi accampa diritti per proteggere la fauna che fuoriesce dal Parco. Il Parco vero e proprio, però, si trova al di là del crinale Cacchiete – Colle Buono – Balzo di Ciotto – Serrone, quindi al di fuori del territorio di Pescosolido. Recentemente lo hanno chiamato “Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise”, ma è rimasto immutato nella sostanza. [15] Rava, parete rocciosa, scoglio (E. Giammarco, op. cit.). Ravóne (Licineta), Rava Róscia (valle Sabatina) e Rève (Peschiamalvieri) sono altri scogli in territorio di Pescosolido. [16] Nocciolo. [17] Così chiamata in quanto vi crescono numerore le carline, cardi simili a carciofi, commestibili. [18] Vi è stata piantata una croce in ferro. [19] La cima delle Cacchiete è chiamata “Tre Confini”, poiché delimita i territori di Balsorano, Villavallelonga e Pescosolido. [20] E’ chiamato anche Puzze Crevane (Pozzo Corvano) per via delle numerose ciàvele (gracchi alpini) che in estate vi nidificano internamente, sopra le sporgenze delle pareti rocciose. [21] Italianizzato in Colle Buono, ma è difficile dire dove stia la sua bontà. Chissà che non sia una deformazione di Calvóne (grosso colle calvo, cioè spoglio), visto che poco più avanti, in quel di Campoli, si trova un altro monte Calvo? [22] Anche la cima del Serrone (che è sormontata da una croce in ferro) è chiamata “Tre Confini”, poiché divide i territori di Campoli Appennino, Villavallelonga e Pescosolido. Il Serrone nel passato era chiamato anche Portella o Mandrelle e dai campolesi Autone. Qui si trovano le “coste del Serrone”, una fetta di territorio di circa 40 ettari, estremamente ripida, scoscesa e quasi impraticabile, contesa tra Campolesi e Pescosolidani fin dai tempi più remoti. [23]
Scegliendo i faggi con accuratezza, ne lavoravano il legno per
produrre arche (madie),
stanghe per carretti, stélera (manici
per zappe, vanghe, picconi ecc.). Gli arcari
andavano a procurarsi il legname sempre nella stessa zona, vicino alla
Rótte ‘glie Muónace,
poiché lì le piante risultavano più spaccarèlle,
cioè più tenere e con
fibre più uniformi e perciò più facilmente lavorabili, e così la
zona venne chiamata la Sélva
‘glie Arcare. [24] Circa 200 m. a valle della Macchia di Marro. [25] Circa 300 m. a valle di Colledardo. [26] Nella Grotta dei Monaci si trovavano nascosti, non si sa da quando, diversi oggetti preziosi. Nel 1600 un pescosolidano che pascolava il gregge, sorpreso da un temporale improvviso, entrò nella grotta per ripararsi e, mentre aspettava che il temporale cessasse, si mise a curiosare nel cuniculo che s’apre in fondo alla parete e lì rinvenne una campanella e un calice d’oro (ora conservati nella nostra chiesa Madre) nonché una croce astile d’argento (quella che portiamo in processione il 14 di Settembre: ha un valore inestimabile, poiché è attribuita al noto incisore quattrocentesco Nicola di Guardiagrele). Ora mi dicono che nella grotta fu rinvenuto anche il quadro della Madonna della Misericordia. Chissà che non vi sia nascosto ancora qualcosa? [27] Si dice che il custode, a corto di quattrini, vendé il quadro ad una famiglia benestante di Pescosolido; ma poi se ne uscì di mente per il rimorso. [28] “Pietra Solida” Bollettino della Parrocchia dei SS. Giovanni Battista ed Ev. – Pescosolido, Maggio 2002. [29] Giuseppe Cesari (Arpino 1568 - Roma 1640), detto il Cavalier d’Arpino, fu un grande pittore (ma poco originale); tra l’altro decorò la cupola e la sagrestia di S. Martino a Napoli, la Cappella Paolina in S. Maria Maggiore a Roma ed i cartoni per i mosaici della cupola di S. Pietro in Vaticano. – dal Dizionario Enciclopedico Italiano (Treccani), Roma 1970. [30] Il toponimo è dovuto al fatto che nei tempi andati una donna del paese, vedova e poverella, una mattina andò in montagna a raccogliere legna, ma a Sante Piétre scivolò a causa della neve caduta nella notte e, finita dentro una vória d’acqua, morì assiderata. [31]A Campo di Grano si può arrivare in due modi: percorrendo il sentiero Fossato-Collerotondo-Cerreta-Scalelle-Macerone (3 ore circa) oppure percorrendo la strada rotabile che dal Prato porta alla Fontana Donato e poi proseguendo a piedi per il Mandrino, la Vagliona, la Casina, il Pozzo Corvano e le Cacchiete (4-5 ore). [32] Due sono le più belle e spettacolari: quella di Fra' Bettuse (sotto il ponte metallico con cui si accede alla galleria dell’acquedotto) e quella più a valle, nei pressi della Queccétte 'glie Nfiérne, dove la leggenda vuole che "il signore del Lacerno", uno spuntone di roccia dal profilo umano, stia a guardia di un tesoro nascosto non si sa dove (per saperlo, bisognerebbe trovare il punto in cui si scorgono a valle tre paesi: uno con la torre, uno con un castello ed uno non ricordo con che; quando si scorge tutto questo, il tesoro è sotto i piedi). Per raggiungere la cascata della Queccétta ‘glie ‘Nfiérne, bisogna entrare nel pieno dell'acqua gelida che scorre tra due strette ed alte pareti rocciose. [33] L’opera venne realizzata dalla Cassa per il Mezzogiorno (un ente istituito nel 1950 per finanziare ed eseguire opere dirette allo sviluppo del Mezzogiorno d’Italia) per rifornire d’acqua i comuni di Campoli, Pescosolido, Alvito, Fontechiari, Broccostella, Arpino, Isola Liri, Castelliri e Sora. All’esecuzione dei lavori provvidero operai pescosolidani e campolesi. In sede di redazione del progetto erano stati previsti anche 4 morti (che fortunatamente non ci furono). Un solo incidente avvenne durante l’esecuzione dei lavori, nel tratto che sembrava più facile, lungo la condotta che da Campoli arriva a Pescosolido: un operaio (di Pescosolido) fu travolto da uno smottamento del terreno e perse una gamba (ma ebbe delle complicazioni, che dopo qualche anno lo portarono alla morte). [34] Un vecchio rifugio, sui cui ruderi qualche anno addietro è stata costruita una capanna coperta a lamiera. [35] Un cordolo in cemento costruito nel Secondo Dopoguerra da un carbonaro di Veroli (Paniccia di cognome) per raccogliere acqua da bere. La fontanella si trova tra la Casina e il Vallone dei Tassi e si raggiunge percorrendo un sentiero breve, ma scosceso ed a tratti esposto sul vuoto. [36] Alberi sempreverdi (in questo luogo non troppo alti), molto longevi, con foglie e frutti velenosi se mangiati. [37] Nella zona, lungo il sentiero che dal fosso sale verso i monti di Campoli, uno scoglio presenta un incavo che dà l'idea di un forno. [38] Ampia grotta in cui, secondo la tradizione, una volta abitavano i romiti. Si racconta che dentro di essa un pastore del 1600 vi rinvenne, per caso, una croce astile d’argento (quella che portiamo in processione il 14 di Settembre, attribuita all’incisore Nicola di Guardiagrele), un calice d’oro, una campanella e, pare, anche la Madonna della Misericordia. La grotta si trova tra Virginia e Fra' Bettuse, lungo la condotta dell’acqua. Nella zona una volta esistevano altre grotte, naturali o "manualmente fatte", in cui vivevano "persone retirate a Dio a farvi penitentia" (Prudentio d'Alvito, 1574), perciò si parlava di "vadum cellarum", il guado delle celle. A Virginia, al di là del fosso, il sentiero si biforca: a destra sale al Forno ed alle montagne di Campoli; a sinistra costeggia il Lacerno e, superando stretti passagi lungo la parete rocciosa, raggiunge Le Iàvete e quindi il sentiero principale (quello che, provenendo dalla Fontana Donato, porta a Campo di Grano). [39] Fra' Benedetto. Qui inizia la condotta, in galleria, che porta a valle l'acqua captata. [40] Qui il letto del torrente si slarga per un breve tratto e l'acqua si espande luccicando al sole. [41] Alto scoglio sulla destra del torrente. [42] "Voglia o nen voglia, l'acqua tèa arreuà a Campedoglie" avrebbe detto Nerone (usando il dialetto delle nostre zone) e ordinò che si desse inizio all'opera. [43] Fino ad una cinquantina d’anni addietro le piene del Lacerno erano impressionati: una quantità enorme d’acqua mista a fango scendeva a valle ribollendo e travolgendo tutto; a Campopiano-Pontrinio straripava allagando i campi e la stessa città di Sora. Poi il Consorzio di Bonifica della Conca di Sora costruì le briglie (sbarramenti in muratura atti a frenare l’irruenza dell’acqua) tra la Rótte ‘lla Paglia e Campopiano e cementificò la parte terminale del torrente (con grande cruccio degli ambientalisti, che nel cemento vedono la distruzione delle siepi, che servono da ricovero agli animali selvatici). Costruite le briglie, cessarono gli straripamenti ed i Sorani potettero dormire sonni più tranquilli. [44] Eugenio Maria Beranger, Riscoperta dell’Acquedotto Romano di Sora in Lunario Romano, v. XII, 1983, pp. 597-510. [45]
E. M. Beranger, op. cit., p.
506. [46] Due di tali coppette, smaltate di nero, sono state trovate da Domenico Cicchinelli e Stefano Guadagni in una tomba, venuta alla luce a seguito di un temporale, nella zona di Pescosolido denominata Peluse (S. Pietro - Castagna). Le coppette sono state consegnate, tramite il professor Rizzello, al Museo Civico della Media Valle del Liri in Sora. [47] Normalmente raffigurano Ercole con il vello in mano. [48]
”Evvi fra due montagne un
fosso o pur precipitio da una tirata d'archibuscio, et sotto vi scorre
acqua. Lo dicono Lo Lacerno, arborato dall'una e dall'altra banna de
lecine et altri bellissimi arbori, tutto sassoso, quasi inaccessibile
per l'alte acute et spesse pietre, dove alla sicura praticano camosci
et lupi assai. Hanno hauto animo alcuni di andarvi, et al fin saliti hanno trovato certe grottaglie manualmente fatte,
meravigliose et secrete. Tiensi per essere atte alla solitudine
vi fossero persone retirate a Dio a farvi penitentia; perchè fin
sopra e allo scoperto sono alcune cellule con fontanelle, dove forse
andavano a recrearsi il giorno. E' un terrore
vedere questo luoco: terrore, horrore et tremore. Molti vi
vanno et restano stupefatti." - dalla
"Descrittione d'Alvito et suo contato raccolta parte dal trovato,
parte dal visto et parte dallo inteso per Giulio Prudentio d'Alvito,
1574" - in Domenico
Santoro, Pagine Sparse di Storia
Aalvitana, Chieti MCMVIII, pp. 250 e 251. [49] ”Alla scoperta del canyon Lacerno. Itinerario bello, non lungo ed estremamente suggestivo, che che conduce nello stretto canyon in cui scorre il torrente Lacerno. A meno di voler affrontare passaggi anfibi particolarmente acrobatici, non è possibile collegare questa parte del vallone con quella più alta, che si allarga in direzione delle vette di M. Cornacchia e della Brecciosa. Si raggiunge il piccolo abitato di Querceto (in territorio di Campoli Appennino). Si imbocca un sentierino a mezza costa, che cala al fondo del vallone con bel panorama sull’imponente mole di M. Serrone. Raggiunto il torrente, lo si segue prima nel greto, poi nel fitto bosco della riva destra. Si ridiscende al corso d'acqua, si supera un tratto di vegetazione un po' intricata e si entra nella prima, impressionante strettoia del canyon dove si procede tra grossi massi. Altri guadi ed un tratto più aperto portano alla seconda strettoia, più emozionante della prima. Il canyon si riapre brevemente; ma la terza strettoia non può essere affrontata senza entrare nel grosso ed impetuoso torrente. Questo punto (720 m.) segna la fine della gita” - in S. Ardito, A Piedi nel Lazio, 198 passeggiate, escursioni e trekking, vol. 1, Subiaco 1988, pp. 159-161. [50] E. M. Beranger, op. cit., p. 503. [51] Il catasto onciario dell’Università di Pescosolido era un registro delle tasse (calcolate in once, da cui onciario). Fu redatto, come nella altre Università del Regno di Napoli, per ordine del Re Carlo VII di Borbone con lo scopo di far pagare “lo che devono per giustizia”, cioè le tasse, a tutti i cittadini “bonatenenti” (possessori di beni). Nel documento, alla cui compilazione lavorò per oltre 5 mesi un’apposita commissione di cittadini esperti e qualificati, vennnero riportati tutti i beni (terreni, animali domestici, frantoi, rendite ecc.) posseduti da “cittadini, ecclesiastici secolari cittadini, vedove e vergini in capillis, forastieri abitanti laici, forastieri non abitanti laici, forastieri non abitanti ecclesiastici secolari, chiese, munisteri e luoghi pij”. Per ogni bene venne calcolata la rendita annua che poi venne tradotta in once (una sorta di punteggio, a cui poi si applicava una tariffa che poteva variare di anno in anno, a seconda che l’Università avesse bisogno di maggiori o minori entrate). Di ogni capofuoco (riportato in elenco in base al nome e non al cognome) vennero registrati tutti i dati utili: età, stato civile, professione, conviventi a carico (con relativa età, condizione civile e professione), casa di abitazione (con numero dei vani, ubicazione e confini) e tutti i beni posseduti a qualsiasi titolo (esclusi gli animali da cortile, non tassabili). Il documento riporta una quantità incredibile di notizie, a volte anche curiose, sul nostro paese e sui nostri antenati, notizie che potrebbero tornare utili a chi volesse approfondire la conoscenza del nostro passato. [52] Antico castrum che sorgeva ad oriente di Alvito, sul colle ancora oggi detto della Civita. Secondo Domenico Santoro (Pagine Sparse di Storia Alvitana, Chieti MCMVIII, pp. 25 e 26) il castrum venne distrutto nel 1193 per ordine dell’Imperatore Arrigo VI; secondo altri venne abbandanato dagli abitanti che, per motivi a noi sconosciuti, si trasferirono tutti sul Monte Albeto fondandovi l’odierna città. [53] La sentenza venne emanata nel 1508, “anno quinto del pontificato del santissimo Padre in Cristo e nostro signore Giulio II, Papa per divina provvidenza, e mentre governava nella città di Sora l’illustrissima ed eccellentissima nostra signora donna Giovanna e l’eccellentissimo signore nostro don Francesco Maria di lei figlio, il giorno cinque del mese di settembre della dodicesima indizione”. Erano presenti i campolesi Aurelio Rocco e Francesco Giacomo, “che ascoltarono e ben compresero le disposizioni che chiaramente emergono dagli atti del processo”, nonché i pescosolidani Orlando Marrone e Battista Neri, che chiesero una copia dell’atto. Una copia di questa sentenza, fatta nel 1547 dal notaio Francesco Macciocchi di Sora, si trovava nell’Archivio di Stato di Napoli, Ramo Politico, fino al 1879. Da essa furono estratte copie nel 1846 e nel 1869. [54]
Per “parte bassa del territorio di Pescosolido” è da intendersi
la fascia a ridosso della riva destra del Lacerno (Pretella, Acque
Vive, Casale ecc.). La sentenza così recita: "Christi
nomine repetito eiusque Gloriosae Matris Virginis Mariae talem
interdictas partes sententiam damus et proferimus in hunc modum et
formam et his scriptis videlicet. Quia dicimus sententiamus declaramus
et iudicamus inter praefatas Communitates et universitates ac homines
fuisse et esse veros ac legitimos confines incipiendo a columnella
quae dividit territoria Villae Collis
Longi castrorum Peschisolidi et Campoli et descendendo ad Vadum Cellarum seu
Cellae in capite Laterni, et descendendo semper per ipsum fluvium, seu
Vallem ipsius Laterni usque ad oppositum Collis Sancti Marciani. Et
sic ipsam columnellam, Vadum Cellarum seu Cellae et
ipsum fluvium Laterni esse metas et terminos earundem communitatum seu
castrorum Peschisolidi et
Campoli et terminos territoriorum uniuscuiusque ex dictis
communitatibus ad tales metas se extendisse et se extendere ac extendi
debere… Debeant homines et privatas personas dicte terre Campoli
habentes terras seu possessiones et domos versus dictum castrum
Peschisolidi et infra dictos terminos existentes seu illos in posterum
manentes permictimus et promictimus talibus possessionibus domibus et
terris pacifice et quiete cum eorum animalibus vel sine uti gaudere et
frui seu fuerunt utiles et directi domini seu utiles tantum vel
directi, aut etiam coloni". - dalla
copia della sentenza rilasciata
a Napoli il 16 settembre 1879, Archivio
Comunale di Pescosolido, Vol. 5 – b. 1. [55] Deliberazione del Consiglio Comunale di Pescosolido, in adunanza straordinaria, del 25 luglio 1865 (Sindaco Vittorio Giovannetti, segretario Pietro Giovannetti, consiglieri Guadagni Pancrazio, Corsetti Angelo Nardo, Cancelli Luigi, Ruggieri Vincenzo, Palmerini Pasquale, Catenaro Pasquale e Tersigni Ignazio. Consiglieri assenti Matachione Antonio, Matacchione Pietro, Baldesarra Giacomo, Sarra Vincenzo, Ruggieri Donato e Ciccolini Gennaro) – Archivio Comunale di Pescosolido, v. 5, b. 1. [56] In quel tempo c’era una gran paura dei briganti, che avevano infestato le nostre zone (come quasi tutto il Meridione Italiano) tra il 1860 e il 1865; ma anche dopo questo periodo operavano piccole bande di irrudicibili. Il brigantaggio fu alimentato dai Borboni che, scacciati da Garibaldi e rifugiatisi a Roma sotto la protezione del Papa e dei Francesi, speravano di riconquistare il Regno delle Due Sicilie. Nel 1863 il numero dei briganti ammontava a decine e decine di migliaia. Si trattava di ex soldati del disciolto esercito borbonico, nostalgici del vecchio regime, disertori, renitenti alla leva (da poco istituita), scontenti e di altri poveracci che, a causa dei rivolgimenti politici, si ritrovarono senza né arte e né parte. Contadini e pastori, o per solidarietà o per paura di rappresaglie, dettero ai briganti un aiuto determinante. – dal Grande Dizionario Enciclopedico Fedele, Torino 1955.
Nelle nostre zone tra il 1860 e il 1862
il capo indiscusso dei briganti fu Luigi Alonzi, detto Chiavone, un
guardaboschi semianalfabeta della Selva di Sora. Aveva fissato il suo
quartier generale sulle montagne di Sora; ma spesso si spostava sui
monti circostanti, di cui conosceva i recessi più nascosti, per
sfuggire o dar la caccia alle milizie di Vittorio Emanuele II. Una
volta, mentre si trasferiva alla Piana delle Cinquemiglia (in Abruzzo)
per unirsi ad altri briganti, da Campo di Grano scese a valle e
saccheggiò Pescosolido (7 giugno 1862). Alcuni giorni dopo, per
contrasti sulla conduzione della guerriglia e per sospetto tradimento,
venne catturato e fatto fucilare da un suo compagno di avventura, il
generale Tristany, uno spagnolo che s’era messo anch’egli a
difendere la causa borbonica, come facevano altri giovani stranieri
(non tanto per motivi ideali quanto per spirito d’avventura).
L’esecuzione avvenne il 28 giugno 1862 sulle montagne di Sora, in un
punto imprecisato della Valle dell’Inferno. Insieme a Chiavone fu
fucilato anche il suo segretario, Ferdinando Lombardi. I corpi dei due
vennero dati alle fiamme dagli uomini di Tristany una settimana dopo
(prima non si era potuto a causa dei pattugliamenti effettuati dalle
milizie italo-piemontesi). – da Michele Ferri e Domenico Celestino, Il Brigante Chiavone, Casalvieri (FR) 1984. [57] “Verbale del G. boschi C. Francesco Macciocchi e Salvatore Corsetti per contravenzione di pascolo Abbusivo” – Archivio Comunale di Campoli Appennino. [58] Deliberazione del Consiglio Comunale di Pescosolido del 23 settembre 1869 (Sindaco Vincenzo Ruggieri, segretario Pietro Giovannetti, consiglieri Guadagni Pancrazio, Corsetti Angelo Maria, Giovannucci Cosmo, Catenaro Pasquale, Cianfarani Vincenzo, Guida Michele e Giovannetti Vittorio. Assenti i consiglieri Cancelli Vincenzo, Ruggieri Donato, Matachione Antonio e Pietro, Baldesarra Giacomo, Palmerini Pasquale e Michele Vincenzo).- Archivio Comunale di Pescosolido, Vol. 5, b. 1. [59]
"Contribuzione Fondiaria - Provincia di Terra di Lavoro -
Distretto di Sora - Università di Pescosolido - Processo verbale
della ripartizione del territorio dell'università di Pescosolido".
Il documento a Pescosolido circola in fotocopia. [60] Recipiente di rame stagnato internamente, usato dalle donne per attingere acqua alla fonte, somiglia ad una donna vestita all’antica: largo alla base, si restringe verso l’alto (quasi a formare un vitino) e quindi si allarga nuovamente. L’acqua vi si preleva con glie maniére, un grosso mestolo il cui manico si afferra con la mano (da cui maniére). [61] Recipiente in terracotta, altrove chiamato cannata, con due manici ed un beccuccio per bere, che nella forma è l’opposto della conca: stretto alla base e panciuto verso l’alto. [62] Cercine dalle donne messo sulla sommità del capo prima di posarci il recipiente da trasportare. Nel passato normalmente erano le donne che portavano i pesi in testa e per questo, si diceva, rimanevano basse di statura. Però anche gli uomini a volte trasportavano pesi sulla testa, ma accadeva molto di rado. Invece accadeva spesso di vedere un uomo che procedeva cavalcando un asino ed una donna (sua moglie) che lo seguiva a piedi portando un peso sulla testa. [63] Botticelle di legno che, riempite d’acqua, in cucina venivano adagiate su due assi di legno infisse orizzontalmente nel muro (come si nota ancora in qualche casa colonica abbandonata). [64] Vi sono ancora i resti di un mulino. Potendo utilizzare l’acqua della Profica, la Melétta anticamente funzionava con costante regolarità, a differenza dei mulini esistenti lungo il Lacerno, che funzionavano solo al tempo delle piogge. [65] Per fare il bucato, le donne utilizzavano la cenere del focolare. Sistemavano i panni sporchi in una bagnarola o canestro di vimini, li coprivano con un telo e quindi con uno strato di cenere; ci versavano sopra dell’acqua bollente e li lasciavano a mollo per una nottata. Al mattino li portavano alla fontana: gettata la cenere in un angolo, lavavano i panni ad uno ad uno, prima nella vasca più a valle e poi in quella più a monte. Chi andava alla Purifica, gettava la cenere in un punto situato tra S. Giacomo e il bivio per la Civitella, che per tale motivo venne chiamato Cennerale. Lì al tempo della luna piena iv’a ‘vvetràsse glie gliupe menare, spaventando tremendamente chi si trovava a passare di lì. [66] L. Caira - V. Orlandi, op. cit., p. 38. [67]
Detta anche Fentana ‘lla
Chemmentatòra perché situata nell’ex proprietà della
chemmentatòra, una signora molto distinta e riservata che al
tempo del Fascismo si stabilì a Pescosolido, rimanendovi poi fino
agli anni ’60 o ’70. [68] E’ una scorciatoia dritta e ripida che sale alla Nocicchia. Chi nel passato andava pe felagne, le spingeva a valle per il Corridoio, risparmiandosi la fatica di portarle a spalla. [69] Il toponimo è dovuto al fatto che un terreno della zona fu barattato con un grammofono a tromba, uno di quegli aggeggi fantastici che, per farli funzionare, bisognava caricare con una manovella. [70] Antonio Casimiro Mariani, di famiglia benestante, abitava a Pescosolido in contrada Borgo Isolata insieme con “Anna Maria sua Moglie di Campoli (di) anni 56” (lui ne aveva dieci di meno, come si legge nel Catasto Onciario del 1748). Esercitò la professione in Pescosolido dal 1725 al 1756, stando agli atti manoscritti raccolti in un volume custodito da Stefano Guadagni di Pescosolido.
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